British Lion – Review

Il nostro amico Diego, che già qualche settimana fa ci aveva segnalato la sua review dei due show dei Maiden a Irvine, ci ha inviato una sua personale recensione dell’album di debutto solista del leader dei Maiden, Steve Harris.

Con molto piacere la pubblichiamo ringraziando come sempre Diego per la sua gentilezza.

Forse colui che scartò Stephen Percy Harris come giocatore del West Ham United – non sappiamo se fosse un allenatore, un preparatore atletico o semplicemente un osservatore della società – non sa quanto noi amanti del Heavy Metal gli vogliamo bene! Se il giovane capellone dell’East End londinese ha deciso di abbracciare il basso e di dedicarsi esclusivamente alla musica lo deve anche all’insuccesso nel football, così da dedicarsi a 360° alla sua creatura, gli Iron Maiden che dopo tanti cambi di line up e tanti concerti in pub e piccoli club riuscirono grazie alle abili mani di Rod Smalwood ad avere un importante contratto discografico con la EMI sono nel 1980, dopo almeno cinque anni di gavetta. Dal primo omonimo album in poi, la carriera della band londinese ha avuto un crescita esponenziale con pochi momenti bui, ed è inutile in questo contesto elencare dischi di platino, d’oro e concerti con folle oceaniche, basti pensare a come addirittura la band attualmente, nel 2012. sia forse ancora più popolare che negli anni ’80: il che è tutto dire! Ebbene chi scrive, ma penso anche chi legge, ha sempre pensato che gli Iron Maiden fossero di fatto l’unica creatura partorita dalla mente fervida di Steve Harris e, mai avrebbe pensato di trovarsi al cospetto del primo “album solista” del bassista di Leytonhouse, intitolato in maniera quanto mai emblematica “British Lion”. In realtà è un progetto che ha radici addirittura dal 1992, quando insieme ad alcuni musicisti sconosciuti ha iniziato a scrivere delle canzoni nuove che non avevo nulla a che fare con quello prodotto con i Maiden. “British Lion” è un album da prendere con le molle e non si può certo recensire con la sensibilità di un panzer tedesco in un cristalleria: è chiaro fin da subito che se Steve Harris avesse potuto scegliere un canzone adatta ai Maiden non la troveremmo certo in questo disco, qui sono evidenti le sue passioni per il rock inglese anni ’70, gruppi come Who, Ufo, Thin Lyzzy, meno i Genesis, più complessi come struttura dei brani. Punto debole del disco purtroppo è il cantante Richard Taylor, un sorta di via di mezzo tra la voce di Glen Hughes e quella di John Waite, ma privo di grande personalità come timbro vocale, tanto è vero che la prima canzone, “This Is My God” risulta leggera e insignificante quanto la sua voce. “Lost Words” ha anch’essa un approccio moderno come il primo brano, sebbene Steve punti molto alla semplicità senza troppo orpelli e devo dire che è anche molto evidente il suo tipico modo di suonare il basso. I batteristi presenti sul disco, Ian Roberts, Simon Dawson e Richard Cook, nel complesso hanno fatto un buon lavoro, così come il chitarrista David Hawkins, autore anche delle parti di tastiera. Vi sono per altro tra i credits altri due chitarristi che hanno condiviso l’onore di suonare insieme alla leggenda: Graham Leslie e Barry Fitzgibbon. In ogni caso i primi due brani non riescono, anche dopo diversi ascolti, a lasciare ricordi memorabili; piace di più l’approccio delle chitarre distorte in “Karma Killer”, anche il ritornello si insinua come un serpente strisciante nelle nostre orecchie. “Us Against The World” ha un inizio in stile Who e chitarre melodiche in stile Maiden, forse l’unico pezzo che ricorda la band madre di Steve Harris, qui Bruce Dickinson avrebbe fatto sfracelli dando come sempre un interpretazione molto più teatrale e sostanziosa. Malgrado Taylor un pezzo che ti rimane anch’esso stampato nella memoria. Forse il brano più vintage e anche meglio riuscito è il successivo “The Chosen One”, dove brilla il basso di Steve, quasi un’eco melodica alle strofe di Taylor. La parte strumentale centrale è quasi una sorta di nostalgico tributo ai tempi andati e si possono udire anche le tipiche chitarre sovrapposte in puro stile Iron Maiden. “A World Whitout Heaven” completa il terzetto di brani che secondo me nobilitano molto questo lavoro solista di Steve. Molta melodia, e ancora una volta un ritornello semplice ma dall’impatto felice con un sorta di seconda parte ancora migliore della prima. Se si pensa che alla voce c’è sempre il troppo dolce e delicato Richard Taylor, troppo AOR per incidere, il risultato poteva essere anche superiore. “Judas” è forse il pezzo più duro, almeno nell’impatto ritmico iniziale, e tutto sommato non delude malgrado il calo di tensione centrale. “Eyes Of The Young” se riuscisse ad entrare nel circuito radio come singolo potrebbe a mio avviso spazzare schifezze tecno-pop e presunti eroi di reality alla X Factor, purtroppo come sempre resterà una piccola “gemma” melodica commerciale da apprezzare con le cuffie. Certo che qui, anche la voce leggera di Richard Taylor non fa danni, anzi sembra una delle sue migliori perfomance del disco. La penultima traccia “These Are The Hands” sarebbe pessima anche come lato B di un qualsiasi singolo degli Iron Maiden, meglio passare oltre. L’ultimo pezzo, l’acustica “The Lesson” chiude in maniera insignificante quello che tutto sommato resta un lavoro dignitoso e, in alcuni momenti anche con spunti di classe. Sarebbe bastato un band di caratura leggermente superiore a quella utilizzata da Steve per fare un disco ancora più graffiante e da ricordare. Molti dei primi commenti negativi a mio avviso, come nel caso dell’album di Adrian Smith e i suoi Primal Rock Rebellion sono dovuti ad un attesa spasmodica di materiale maideniano ma, come detto in precedenza, l’approccio all’ascolto deve essere diverso altrimenti è inutile anche discuterne.

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